Carteggi di Psicologia

Stai davvero lavorando in Smartworking?

E’ quotidiano il confronto con colleghi, amici e conoscenti sullo smartworking. Come spesso capita per le questioni che coinvolgono una pluralità di persone i punti di vista sono differenti e i vissuti variegati. Tralascio i problemi tecnici, la mancanza di strumenti e le difficoltà informatiche collegate alla connessione da casa, non perché secondarie, ma perché a ben pensare le ritengo quasi fisiologiche rispetto all’esigenza di predisporre in un brevissimo tempo e per un numero molto ampio di persone tutto quello che serve per lavorare da casa.

Mi è capitato anche di confrontarmi con persone che si sono trovate a fare i conti con aziende che hanno cercato di approfittare di questa situazione, cercando di creare dei turni di lavoro a copertura dell’intera giornata e dell’intera settimana. La motivazione era servita su un piatto d’argento: “è un momento difficile e tanto tu lavori da casa, di che ti lamenti?”. Queste situazioni credo rientrino nel campo del “patologico”, ma non credo (spero) riguardino un numero significativo di aziende/persone.

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Mi interessa invece soffermarmi su tutte quelle situazioni in cui aziende e persone si sono trovate davanti alla necessità di attrezzarsi per portare avanti le proprie attività e con spirito di collaborazione hanno cercato di fare quello che era nelle loro possibilità.

Non avrei potuto fare diversamente, due figli piccoli e non voglio metterli a rischio uscendo di casa. Invece così lavoro e posso stare con loro. Sono grata alla mia Azienda“.

Forse questo era il sentimento della prima ora di tutti gli smartworker. Puoi restare al sicuro delle tue quattro mura, svolgere le tue attività (per quanto possibile) e ricevere il tuo stipendio. Fatta salva la pandemia che falcidiava vittime, sembra la panacea di tutti i mali. Non devi più affrontare il traffico, perdere tempo per raggiungere l’ufficio e vedere la brutta faccia del tuo capo.

Certo scoccia un po’ l’intonazione di voce dell’amico con il lavoro manuale che ti apostrofa “quanto sarà bella questa situazione, per te”. E gli fa eco quella vocina nella tua testa di nonno, che fa sempre la parte del Super Io rompiscatole, che dice “sarà mica lavoro vero quello che fai tu! Hai pure letto Facebook mentre stavi al computer…”. Ma questo è un problema di quelli che vogliono sempre essere i primi della classe, i più bravi, i cosiddetti “prestazionali”; facilmente la gran parte di noi è riuscita a tenere a bada i sensi di colpa pensando che diversamente non è possibile fare.

“Scusate il gatto, ma proprio non riesco a tenerlo giù dal tavolo”.

Questa scena è capitata a molti, se non a tutti. Le videocall entrano nel privato, riprendono la casa, gli animali domestici, il letto disfatto, la moglie/marito che passa in tuta bevendo il caffè. Entrare nel mondo personale e nella quotidianità dei nostri interlocutori istituzionali è diventato possibile. Abituati a vederli in giacca e cravatta, impeccabilmente pettinati e truccate, ora ci è dato uno squarcio della loro sfera personale.

Certo se Mattarella può permettersi di essere spettinato nel discorso agli italiani, la Dott.ssa Bianchi può avere la ricrescita. E’ concesso. Magari qualcuno si è anche compiaciuto nel far vedere il disegno appeso della propria figlia, si è sentito più vicino al proprio collega nel vederlo con la felpa di casa, lo ha sentito più umano. Se, invece, la troppa confidenza l’hai percepita come un limite, anche tu avrai testato gli sfondi di Zoom oppure avrai lamentato una scarsa rete che non ti ha permesso di accendere la videocamera, nessuno si è offeso.

“Prendo atto della disponibilità aziendale nel fornirmi gli strumenti informatici per lavorare da casa, ma per motivi personali tale modalità di lavoro non mi è al momento possibile.”

Nell’immaginario collettivo pre-Covid, lavorare da casa era un privilegio concesso a pochi. Eppure, c’è chi non ha voluto, anche potendo o ha voluto limitarlo al massimo. Le motivazioni formali addotte, spesso capita siano le più stravaganti o “legalesi”, ma mi sono domandato quali motivazioni reali siano sottese al diniego del gran privilegio.

Vien facile pensare che qualcuno proprio a casa non ci vuole restare; le mura domestiche, forse i familiari, sono percepiti come soffocanti. Magari in ufficio c’è “l’amica/o” da cui scappare come nelle più classiche delle commedie all’italiana. Oppure c’è altro, qualcosa che sfugge al primo strato di superficie. Sarò sincero, questo è l’aspetto che più mi ha incuriosito; non mi riferisco ai limiti e alla stanchezza che porta il lavoro da casa sul lungo periodo, più che comprensibile e che affronterò dopo, ma proprio alla difficoltà nell’approcciarsi a questa modalità di lavoro.

L’ho vista in diverse persone, da quelle che si sono rifiutate, a quelle che hanno trovato ogni appiglio per limitare la possibilità. Credo che ci siano almeno due ambiti di spiegazioni psicologiche che sono sottese a questa reazione: uno che ha a che fare con la propria relazione con il proprio mondo personale e uno che ha a che fare con la relazione con il lavoro. Nel primo ambito, a mio avviso, rientrano tutte quelle situazioni in cui il copione che si “recita” al lavoro e quello che si recita in casa sono troppo distanti. Se ci percepiamo al lavoro in maniera fortemente disallineata da come ci percepiamo in casa, è difficile pensare di mischiare questi piani.

Pensare che i propri figli possano sentire mentre il capo ci dice cosa fare, intacca il nostro sentirci genitori autorevoli. Pensarci davanti ai nostri familiari mentre svolgiamo le routine dell’ufficio, può intaccare l’immagine che vogliamo mandare di noi ai nostri cari. O viceversa. Se nel nostro lavoro ci teniamo a proiettare un’immagine di noi impeccabile e inossidabile, l’idea che un collega possa vederci “dentro casa” ci infastidisce.

Come abbiamo detto sopra, lo smartworking entra nella tua sfera personale. Nel secondo ambito c’è invece il modo che noi abbiamo di relazionarci al lavoro. E’ cosa nota che il lavoro dipendente è normativamente una prestazione collegata ad un tempo; in sostanza chi lavora per un’azienda viene pagato in base al tempo che dedica ad essa. Alla faccia dei più evoluti manuali di organizzazione del lavoro, non è quello che si produce (materialmente o intellettualmente) che determina lo stipendio, ma le ore che si dedicano al lavoro. Lo dice il Codice civile, con buona pace dei manager.

Lo smartworking, proprio per definizione, rende più labili i confini di misurazione del tempo: non vale più il cartellino, non c’è il capo che ti vede arrivare e andare via. Capi e collaboratori devono adeguarsi a questi elementi; ci si dirige verso un monitoraggio della prestazione, quando per una vita si è abituati a fare diversamente. Nello smartworking il buon capo gerarchico deve orientare la propria gestione verso obiettivi, piuttosto che verso compiti. In poche parole, ti deve dire dove arrivare e non cosa fare. Non essendo con i propri collaboratori fisicamente, non può, tempo per tempo, dire loro cosa fare, ma deve chiedergli di produrre un risultato in un tempo stabilito.

Questo scarto, sia gestionale sia normativo, non si colma in una settimana. E’ oggettivamente complesso e non è detto che tutti i lavori e tutte le persone siano pronte a colmarlo. E qui si inserisce la nostra relazione con il lavoro. Credo che se ci si sente pronti ad affrontare questo scarto, in sostanza se non si vuole passare l’ostacolo, passare allo smartworking ci risulta faticoso se non impossibile.

Per dirlo in parole povere, nei casi estremi, parliamo di chi è abituato ad eseguire i compiti (o impartire compiti) e a rimbalzare la responsabilità sull’altro. Immaginate il collaboratore abituato a fare solo ciò che gli dice il capo, a muoversi solo su impulso dell’altro, o al capo abituato a monitorare ogni mezzora il lavoro altrui; sarà difficile per loro passare ad una modalità fluida come quella prevista dal lavoro da casa. Qui si innesta anche tutta la tematica della propensione al cambiamento, tema che ha molto a che fare con gli stati psicologici personali.

“Per noi commerciali, non poter incontrare le persone è castrante.”

Inizialmente valeva solo per chi era abituato a vivere di riunioni, meeting e pranzi di lavoro; con l’andare del tempo, però, tutti ci siamo resi conto che la socialità è fondamentale. E’ fondamentale lavorativamente: alcune questioni che al caffè riesci a smarcare in 5 minuti, richiedono diverse email che alle volte non sono neanche sufficiente. Quella sensibilità che abbiamo imparato a sviluppare nel tempo che ti permette di capire cosa è più ostico per il nostro interlocutore e dove invece abbiamo qualche margine di manovra da un sopracciglio alzato o da un sorriso appena accennato, non puoi utilizzarla nella forma scritta. E, ad oggi, non c’è canale comunicativo che possa sostituire, e nemmeno avvicinarsi, all’interazione vis-a-vis. La pacca sulla spalla, la battuta sulle occhiaie del collega che ha fatto nottata la sera prima o la lamentela sulla qualità del caffè della macchinetta, ancora, ad oggi non hanno competitor multimediali.

Ma a questo si deve aggiungere il fatto che spesso i viaggi, le missioni, le trasferte, i pranzi aziendali sono un utile viatico a tutte le trattative e i rapporti. Anche i più complessi. Non si può dire, perché è sindacalmente inaccettabile, ma è noto ai più che qualche “uscita dall’azienda” alle volte è un benefit oppure è un costo che le aziende si caricano per facilitare gli umori. E tutto ciò è stato precluso.   

“Ma si può fumare in riunione?”

L’immagine è quella di Maria, appoggiata al tavolo della sua cucina, che in videocall dopo il caffè si accende una sigaretta, continuando a commentare i risultati del primo trimestre. Sorride beffarda alla domanda di Giulia. Già, le regole sono più labili o solo diverse, forse. Puoi permetterti più confidenza, ma è difficile cogliere le sfumature. Capire quanto le persone ti seguono durante una riunione, oppure leggono il cellulare, L’ironia durante una call, soprattutto se solo audio, è quasi vietata: non vedendo le reazioni non si è sicuri che sia colta.

La puntualità è fondamentale, 5 minuti di ritardo ad una riunione necessitano delle scuse (non puoi dire che c’era traffico). Se non rispondi nell’arco di un giorno ad una e-mail ti chiedono se stai lavorando. Si moltiplicano i canali: nascono gruppi di chat sul cellulare, chiamate sul cellulare personale, sms, applicazioni per lavoro di gruppo (Teams per intenderci), chi più ne ha, più ne metta… Non voglio entrare nel tema del “Diritto alla disconnessione”, ma è chiaro che è necessario diventare più tecnologici. Capisco quel senso di inadeguatezza che vedi in chi, soprattutto perché meno evoluto informaticamente, non si sente o non vuole diventare forzosamente multimediale e magari preferisce restare sul caro e vecchio cartaceo.

Le domande che ora sento fare da tutti sono: “E ora cosa succederà? Saremo tutti cambiati? Ne usciremo migliori Stravolgeremo i processi lavorativi?” Vale a dire cambieremo la nostra quotidianità? Trovo queste domande sterili, non perché insensate, ma perché senza risposta. Sottendono le stesse motivazioni di quelle di chi va dal cartomante. In effetti nessuno può rispondere e anche chi ci provasse avrebbe la stessa credibilità della signora con il turbante in testa che interroga i tarocchi o la sfera di cristallo. Possiamo fare delle ipotesi, ma le variabili sono troppe. La storia dell’uomo prosegue; con i suoi salti e le sue curve e noi, per il tratto che ci è dato percorrere, ne seguiamo il flusso.

P.S. Ovviamente questo pezzo è stato scritto in smartworking

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