Carteggi di Psicologia
Non verbale

Il nostro non verbale. Lo subiamo, lo nascondiamo o lo gestiamo?

Girovagando nel web mi sono imbattuta in questo aforisma: “Tra il dire e il fare c’è di mezzo il linguaggio non verbale”. Nel leggerlo, in automatico, mi sono venute alla mente le nozioni imparate all’università su quell’aspetto della comunicazione.  

La letteratura sull’argomento ci insegna che la comunicazione verbale ha la principale funzione di scambiare informazioni utilizzando, appunto, le parole e la comunicazione non verbale, invece, ha la funzione di offrire informazioni attraverso elementi come i gesti, gli sguardi, le espressioni facciali

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Questa definizione sembrerebbe scindere in maniera netta i due tipi di comunicazione, ma non è così. Pensiamo, ad esempio, durante una conversazione, al tono della voce che abbiamo e alle pause che facciamo, questi elementi, che spesso utilizziamo non volontariamente, fanno parte della comunicazione non verbale, offrono informazioni supplementari alla comunicazione verbale e tramite essi i nostri stati d’animo si manifestano. 

Assumendo, dunque, come principio di base, che tutta la nostra comunicazione include sia quella verbale che non verbale, e che,  insieme alle parole, durante una conversazione, vengono fuori anche i nostri stati d’animo, che non sempre vorremmo palesare, proviamo a pensare se imparare, in alcuni contesti, a gestire il nostro non verbale possa essere utile.  

I corsi di public speaking, in cui vengono insegnate strategie per rendere più efficace e chiara possibile la comunicazione di chi parla in pubblico, strategie che interessano, chiaramente anche il non verbale, sono orientati verso l’utilità di imparare la gestione dei due tipi di comunicazione. Questa utilità può, ad esempio, esserci funzionale durante un colloquio di lavoro. In questi contesti, infatti,  possiamo imparare a controllare elementi come: la gestualità, il paraverbale(volume della voce, tono, ritmo, pause e altro ancora), la postura, la direzione dello sguardo. Questo ci aiuta a veicolare, al nostro interlocutore, secondo ciò che desideriamo, indici come: il nostro interesse, lo stato emotivo e anche alcuni aspetti della nostra personalità.  

Nel leggere “veicolare indici come lo stato emotivo, aspetti della nostra personalità, etc”, meccanicamente, ci si palesa il pensiero del mascheramento delle nostre emozioni. In effetti in alcuni ambiti, come quello succitato, è esattamente quello che facciamo. Tutto vorremmo infatti, tranne che mostrare, all’interlocutore che ci sta di fronte, le nostre emozioni, che farebbero trasparire ansie, esitazioni o altro. 

Ma imparare “furbamente e strategicamente” a mascherare le nostre emozioni è davvero necessario? 

Personalmente credo di no e faccio l’esempio di un caro collega che tramite una strategia, “smaschera” subito le sue emozioni. 

Lui non ama parlare in pubblico (ma si è scelto un lavoro dove spesso gli capita di farlo). Quello che succede è che, mentre parla a molte persone si agita, e quando arriva l’agitazione le parole non scorrono più fluide. Davanti al suo pubblico, prima di iniziare a parlare, comunica esattamente l’emozione che sta provando cosicché, quando arriverà l’emozione, che renderà meno fluide le sue parole, chi lo ascolta non potrà che sorridere. A quel punto, il collega, cosciente che l’emozione si è palesata, di fronte ad una risposta da parte del pubblico, anch’essa non verbale, inizierà a rilassarsi.  

Ci sono poi alcuni linguaggi non verbali che sono talmente spontanei che la loro gestione diventa difficile. Un esempio è dato dall’arrossire. L’arrossire non è mascherabile. Pensiamo, adesso, ad una situazione formale (che generalmente è quella situazione  in cui più facilmente si può imparare a gestire il non verbale), dove uno degli interlocutori fa un apprezzamento, su un compito svolto. Se, per ipotesi, l’altro è una persona che facilmente prova imbarazzo, il risultato, quasi certo, sarà che il suo non verbale si manifesterà sul suo viso, con quel fantastico rossore che parlerà di lui. Anche in questa ipotetica occasione, il linguaggio del corpo, lontano dalla consapevolezza della persona, ha sottolineato una sua caratteristica. 

Cosa ci può venire da questi esempi. Il punto è che, se si rendono coscienti gli altri delle emozioni che si provano, senza ricorrere a mascheramenti vari, quando queste decideranno di manifestarsi non troveranno impreparati né noi né il nostro interlocutore. In questo modo, entrambi, potremmo restituire delle risposte adeguate. Ho iniziato l’articolo grazie ad un aforisma che ha catturato la mia attenzione e ho deciso di chiuderlo con un altro che spero catturerà la vostra: “La cosa più importante nella comunicazione è ascoltare ciò che non viene detto”. 

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